The Transcontinental Race

945951_490770917659448_1721139361_nÈ stato quando le piaghe causate dalla sella hanno iniziato a sanguinare, quando il leggero dolore alle ginocchia è diventato più intenso, quando il sole bruciava a temperature troppo elevate e quando il vento contrario s’infrangeva su di me a 60 km all’ora che ho cominciato a pensare che partecipare alla Transcontinental Race non era stata una buona idea.
Quando Mike Hall all’inizio mi disse che sarebbe stata la gara senza supporto più dura in Europa, la prima del suo genere, ero abbastanza sicura di poterla gestire, un gioco da ragazzi. Andiamo, ho girato il mondo, cos’è un continente? Per essere cinica, o “realistica”, per natura, sono pateticamente ottimista quando si tratta di sfide. E sarebbe stata una sfida, per quanto ne sapevo, altrimenti non mi sarei iscritta. Avevo intenzione di spingere me stessa e scoprire nuovi potenziali o limiti.
Dopo il giro del mondo, non sono riuscita a trovare la forza di volontà per salire sulla bici per quattro mesi. Ma la data della gara si avvicinava velocemente,non potevo più rimandare l’allenamento. La necessità è stata l’incentivo per tornare in sella ed è stato sorprendente come i miei muscoli hanno ripreso velocemente da dove li avevo lasciati. Avevo perso la mia forma,ma dopo soli due mesi pedalavo 200 km al giorno senza sforzi. Sapendo di dover attraversare le Alpi, mi sono allenata molto sulle montagne. Non c’è niente come una serie di montagne per rallentarti in una gara.
Col senno di poi, posso dire di non essermi preparata abbastanza. Ma non voglio iniziare con i senni di poi. Perché con senno di poi era troppo presto per fare qualcosa di così grande e così duro. Mi sentivo molto meglio fisicamente che mentalmente. Dal giorno 5, il mio cervello ha iniziato a combattere il mio corpo. Le Alpi erano arrivate e quelle lunghe montagne spazzate dal vento hanno iniziato a logorare la mia determinazione.
Ero sveglia dalle 3,30 del mattino e mi dirigevo verso il Passo Fluela, una salita di 15 km tra vento, pioggia e oscurità. Quando ero scesa, la mia testa era frastornata e mi sentivo raffreddata e febbricitante. Ho ingoiato un’aspirina e ho continuato. La pioggia non dava tregua finchè non sono entrata in Italia, quando il sole squarciava le nuvole e ho iniziato, prematuramente, a ringraziare gli dei per avermi regalato un cielo sereno per scalare lo Stelvio. A 4 km su mi sono fermata per un buon espresso e un paio di cornetti con la nutella. Sentendomi meglio e pronta per sfidare la montagna, ho inserito le clip nei pedali e ho continuato, superando gli altri ciclisti che avevano bagagli più pesanti, felice di aver portato solo poche cose con me.
Avevo solo un’altra maglietta, un paio di calzini, un paio di pantaloncini, un lettino arrotolato e una giacca per la pioggia che stavo usando.

A circa 10 km su, il cielo si annuvolava e iniziava a piovere. A 12 km il vento iniziava a inferocirsi. Più salivo, più gli elementi crescevano: più pioggia, più freddo, più vento. Il vento così forte quasi mi buttava giù dalla bici. Il freddo e il bagnato penetrava nei muscoli e nelle ossa. In situazioni simili, nessuna quantità di distrazioni mentali può portare la tua mente fuori dalla misera realtà. L’equipe della gara aveva deciso di scendere giù dal checkpoint in cima per guardarmi scalare gli ultimi chilometri. Mike alla guida, il ragazzo con la telecamera che filmava. Sadici, ho pensato. E allora io cosa sono?

Finalmente avevo raggiunto la cima, inzuppata e tremante, ma sollevata che il peggio fosse passato. Quattro degli altri ciclisti erano arrivati dopo di me e si univano a me nel mangiare una gran quantità di pasta e pizza. Il vento e la pioggia andavano avanti sferzanti quando ci siamo seduti nel caldo ristorante sperando che entrambi si calmassero per la discesa. Quando nessuno dei due sembrava voler abbandonare la scena, c’era solo una cosa da fare. Mettere un intero giornale sotto la maglietta, buttar giù un doppio whisky e buttarsi nella tempesta.
La discesa è stata straziante. Una delle poche volte che avere una buona immaginazione non serviva. Nella mia mente vagavano le immagini di cosa sarebbe potuto accadere se i miei freni non avessero funzionato o le mie ruote fossero scivolate o una raffica potente mi avesse spinto giù dalla montagna. Andavo giù lentamente….Mi ci è voluta più di un’ora. Quando ho raggiunto la valle, le mie mani erano insensibili, non riuscivo a sentite se premevano sul freno o no.
Poi la strada era piana, la pioggia si era fermata e avevo un meraviglioso vento di coda. Il peggio era passato e il mio ottimismo usciva fuori, lucido e brillante come il sole. Il vento di coda mi spingeva attraverso l’Italia, il mio miglior giorno. 330 chilometri macinati. 100 dei quali fatti in direzione sbagliata. Presa dal piacere di una lunga pista ciclabile accanto a un fiume, non mi accorgevo di girare a sinistra verso Treviso e ho continuato diritto verso Verona. Ho dovuto rimediare al tempo e ai chilometri persi.
Il giorno prima della partenza, mia sorella Kristina mi disse “ ricorda Farlap”. Farlap era un film che vedevamo da bambine su un cavallo che in una gara iniziava per ultimo, conservando le sue energie fino al giro finale, quando iniziava improvvisamente e spingere, galoppando superava gli altri cavalli e finiva in testa. Era il momento di galoppare. Il mio corpo si era completamente abituato alle lunghe ore in bici, le mie piaghe erano guarite, il dolore alle ginocchia diminuito e miei muscoli cresciuti e più forti. La gara iniziava.
Ho iniziato a pedalare tra i 320 – 350 km al giorno, facendo buoni tempi in Slovenia e Croazia , entrando in Serbia. Pensavo che il mio sedere fosse abbastanza indurito a questo punto, le piaghe erano diventate calli. Questo prima di conoscere le strade della Serbia. A parte l’autostrada, non ci sono strade buone che attraversano il paese e manovrare la bici attraverso il labirinto delle strade secondarie e dei villaggi uccide il tempo, la velocità e la volontà di pedalare.
In quel momento, mi sono abbattuta in un muro mentale. L’indigenza di cibo e sonno, il pedalare sotto 40 gradi e il costante su e giù per le strade dissestate. Ho iniziato a chiedermi che diavolo stavo facendo. Non mi stavo godendo niente. Qual’era lo scopo?
Nonostante le cittadine serbe sembravano da terzo mondo avevano tutte il free wifi. Probabilmente perché nessuno ha gli smartphone o gli ipad, quindi la connessione è lasciata senza blocchi. Ero libera di controllare lo status della gara spesso su internet. Con mia sorpresa, mi ero mossa dal 15° posto al 10° e mi muovevo sulla stessa traiettoria di due ciclisti. Uno di loro, Nicholas, era appena avanti a me sulla stessa strada. Io stavo soffrendo…ho pensato che lo stesso doveva essere per loro.
Avevo deciso che il miglior modo per superare il mio muro mentale era pedalarci dentro. Una volta in Bulgaria tutto è andato meglio. Ho iniziato a gareggiare con il ciclista davanti a me, e sono riuscita a superarlo sulla strada. Se perdi la tua motivazione principale, trovane un’altra. Mantieniti davanti al ragazzo alle tue spalle. Con questo piano in mente, ho pedalato 400 km, fermandomi solo per mangiare qualcosa velocemente sulle stazioni di servizio sulla strada. Quando mi sono fermata a mangiare qualcosa la sera, ero a circa 150 km da Istanbul, ero così fusa che mi addormento nel ristorante. Quando mi sveglio qualche ora dopo, Nicholas, che ha continuato a pedalare, mi aveva superato. Meritatamente, per aver pedalato tutta la notte, è arrivato qualche ora prima di me all’ 8°posto. Io ero 9° su trenta ciclisti.
Istanbul era così vicina. L’ultimo sprint e gli ultimi ostacoli includevano una scarica di adrenalina causata da un attacco di un cane, una foratura sull’autostrada con giganti camion che mi sfrecciavano accanto e, ciliegina sulla torta, un fortissimo vento di faccia. Gli ultimi 60 km sull’autostrada sono stati infiniti, con lo skyline di Istanbul che sembrava uno sfondo irraggiungibile.

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Ci sono un paio di aggettivi adeguati per descrivere la sensazione nel superare il traguardo di una corsa simile. Richard Dunnet, il n.2 della gara, mi passa una birra gelata. Non c’è niente come bere una birra, o dieci, che hai guadagnato. Non c’è niente come dormire in un letto confortevole dopo due settimane prive di sonno e pisolini nei cespugli. Non c’è niente come sedersi su una sedia all’ombra non facendo niente per ore, dopo aver pedalato per 16-18 ore ogni giorno sotto il sole cocente. Non c’è niente come una lunga calda doccia dopo aver accumulato polvere e sporcizia sulla strada. Non c’è niente come mangiare in un buon ristorante dopo aver riempito il tuo stomaco di panini freddi delle stazioni di servizio per due settimane. Non c’è niente di meglio di tutte le cose ordinarie quotidiane che noi diamo per scontate.

Ora ricordo perché ho deciso di gareggiare. L’ho fatto per l’esperienza. L’ho fatto per spingere me stessa e scoprire cose del mio carattere, delle mie capacità e del mio coraggio. Ma avventura e limiti a parte, penso che in fondo l’ho fatto perché ero annoiata del “giorno dopo giorno” e volevo risvegliare quell’apprezzamento per la vita che è così facile da perdere quando sei immerso in essa. E credo di aver centrato il punto.